Una parte di questa intervista è stata pubblicata dal free press Mi-Tomorrow, media partner del Festival
Che tipo di edizione è stata quella di quest’anno?
Innanzitutto è stata caratterizzata da una novità: il festival si è infatti svolto all’Anteo Palazzo del Cinema, luogo storico per il cinema milanese e per noi meta ambita, ma anche una nuova sfida per il coinvolgimento del pubblico. Mi sembra che siamo riusciti a colpire nel segno. In sala, infatti, c’è stata grande partecipazione degli spettatori. I dibattiti sono stati vivi e i registi hanno voluto raccontare le emozioni e le motivazioni personali che li hanno portati a realizzare un determinato progetto. In generale, l’interesse per il festival è cresciuto: ad esempio il numero delle iscrizioni è
raddoppiato rispetto allo scorso anno.

Amelia Nanni, vincitrice del premio della giuria, con la giurata Eva Schwarzwald
Come è cambiata la sensibilità e il lavoro dei registi in questi otto anni di concorso?
L’attenzione e la profondità nell’approcciarsi ai temi non è cambiata, ma abbiamo notato due tendenze. Da una parte c’è un maggior coinvolgimento personale nelle storie raccontate, perché diversi registi raccontano storie legate alle proprie esperienze di vita. In particolare sul tema dell’immigrazione abbiamo ricevuto lavori di registi che sono immigrati di seconda generazione che raccontano le proprie vicissitudini. Dall’altra, alcune sceneggiature contengono elementi comici e dissacratori volti suscitare un nuovo tipo di reazione nel pubblico, nonostante i temi trattati. Infine, la capacità tecnica e la qualità dei lavori è sempre maggiore anche se realizzati da esordienti.
Anche in questa edizione da record, i temi principali emersi dai corti – immigrazione, condizione dei riders e lo ius soli – sono molto attuali…
Sì, i registi sono molto sensibili alle tematiche attuali, infatti i filmmaker che hanno presentato i loro lavori sono per la maggior parte under 30. L’esigenza di raccontare i problemi della nostra società non può che venire da giovani come loro, che credono nel cambiamento.

La direttrice artistica Delia De Fazio con Beppe Tufarulo, vincitore del premio del pubblico
Come si arriva alla decisione dei vincitori?
Il Premio della Giuria è attribuito da un gruppo di esperti del settore che valuta i film; il
Premio del pubblico è conferito dagli spettatori presenti in sala, che esprimono una
preferenza subito dopo la visione. E poi c’è il premio, introdotto lo scorso anno, attribuito
dagli ospiti della Casa della carità che vedono i corti in anteprima.
Puoi descriverci i tre corti premiati?
‘Fireflies’ di Amélia Nanni, vincitore del Premio della Giuria, affronta il tema dell’immigrazione e dell’integrazione con delicatezza e profondità, servendosi di due incredibili attori di 8 anni che cercano, con ingenuità, di risolvere una situazione più grande di loro. ‘Baradar’ di Beppe Tufarulo racconta una drammatica storia, tratta da una vicenda reale, di un bambino afgano di 12 anni che rimasto solo al mondo viaggia fino in Europa. Fortunatamente la storia ha un lieto fine, infatti Alì, il protagonista, ora insegna a Roma e ha pubblicato due libri per Feltrinelli. ‘Pizza Boy’ di Gianluca Zonta, attraverso la storia di Saba, rider e immigrato, mostra come sia possibile mantenere uno sguardo di speranza nonostante i pregiudizi diffusi nel mondo contemporaneo.

Don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità, con Gianluca Zonta che ha vinto la menzione speciale del SOUQ Film Festival 2019
Importante anche la partecipazione dei lungometraggi fuori concorso, cosa è emerso da questi film?
Quest’anno la scelta dei due lunghi è ricaduta su Sinfonía di Gilbert Arroyo e Andrés
Locatelli e Jungle – a Modern Odyssey di Hetty de Kruijf. In entrambi traspare un messaggio di speranza per un futuro diverso e migliore, nonostante le avversità e i drammi vissuti. Nel primo veniamo travolti dalle speranze di un futuro migliore di tre ragazzini peruviani, che frequentano uno dei centri musicali istituiti dal progetto sociale del famoso tenore Juan Diego Flórez, per togliere dalla strada i bambini del suo paese.
Nel secondo si ribadisce come l’immigrazione sia sinonimo di speranza per migliaia di
persone che affrontano esperienze drammatiche in patria e nel viaggio verso una ‘terra
promessa’.
Esiste tra i film presenti qualcuno che vi ha colpito particolarmente e perché?
In realtà tutti hanno qualcosa che ci ha colpito. Tuttavia, il corto Sin Cielo, oltre all’evidente qualità filmica, mostra una situazione che ancora purtroppo accomuna i paesi di tutto il mondo e cioè la schiavitù sessuale. Il corto si svolge in una città di confine tra Stati Uniti e Messico, ma potrebbe svolgersi ovunque. E l’elenco coi nomi di centinaia di donne e ragazze scomparse, presente nei titoli di coda, è un vero invito all’azione.

Un fotogramma di “Sin Cielo”
L’obiettivo del festival, diffondere i temi dell’inclusione e della coesione sociale, non cambia negli anni, come cambia invece la percezione degli addetti ai lavori e del pubblico?
La mission del festival permane nel tempo, ma devo dire che gli addetti ai lavori e il pubblico di anno in anno colgono con sempre maggior profondità il senso del lavoro che stiamo facendo, e gli obiettivi che Centro Studi SOUQ e Casa della carità, promotori dell’iniziativa, si pongono. Li vediamo più vicini, con una consapevolezza crescente e pronti a farsi portavoce di un messaggio di apertura verso l’altro, di solidarietà e comprensione reciproca.